4 marzo 2015
In ambito di patto di non concorrenza, ove questo è espressamente limitato ai prodotti oggetto dell’attività lavorativa del dipendente, devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifi co settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ovvero al mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato.
E’ stato così deciso dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 24662. Un’azienda (anche sanitaria verso chi opera in regime concorrenziale con strutture private sempre che che non si sia titolari di contrati di lavoro a tempo determinato o part time) chiamava in giudizio un proprio ex dirigente, asserendo la violazione del patto di non concorrenza, per aver svolto attività
lavorativa presso altra azienda concorrente; domandava l’inibizione dalla prosecuzione dell’attività lavorativa e la condanna al pagamento di penale a titolo risarcitorio.
Il lavoratore contestava la domanda e proponeva a sua volta domanda volta ad accertare la nullità del patto di non concorrenza e la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità per mancato preavviso.
Il Tribunale accoglieva la domanda dell’azienda e la domanda del lavoratore di pagamento dell’indennità di mancato preavviso. Proponeva appello il lavoratore e la Corte d’appello, accogliendo il gravame, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, rigettando la domanda dell’azienda. Ricorrevano in Cassazione sia l’azienda che il lavoratore per la riforma della sentenza d’appello.
L’art. 2125 c.c., disciplinante il patto di non concorrenza, mira a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le clausole pattizie non comprimano eccessivamente la possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni; dall’altro lato le clausole di non concorrenza sono fi nalizzate a tutelare l’imprenditore datore di lavoro da illecite esportazioni presso imprese
concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, quale l’organizzazione tecnica e amministrativa, metodi di lavorazione, clientela ecc.
Per la validità del patto l’art. 2125 c.c. pone limiti temporali e spaziali e la necessità di un corrispettivo adeguato.
Nella fattispecie esaminata, il patto di non concorrenza era contenuto in una scrittura privata sottoscritta dalle parti. Mediante tale accordo, era stato previsto il vincolo di segretezza con riferimento a tutte le funzioni e le attività svolte dall’impresa, al processo produttivo, all’elenco clienti e fornitori, alle politiche di ricerca tecnologica.
Inoltre veniva evidenziato il patto di non concorrenza vero e proprio, in forza del quale il lavoratore si impegnava a non assumere qualsiasi tipo di attività, autonoma o subordinata, in favore di terzi svolgenti attività concorrente con quella del datore di lavoro, «limitatamente ai prodotti oggetto dell’attività lavorativa».
La Corte d’appello aveva disposto consulenza tecnica d’ufficio, all’esito della quale era emerso che le due società operavano nel medesimo settore produttivo (polimeri acrilici); che i prodotti realizzati dalle due aziende avevano caratteristiche morfologiche, di stato e di reazione diverse; che uno solo dei prodotti realizzati dalla società alle cui dipendenze prestava attività il dirigente poteva avere qualche margine di concorrenzialità con prodotti della società ricorrente, seppur remota.
E dunque, secondo la Corte di merito, non si ravvisava la violazione del patto di non concorrenza.
La Corte di Cassazione condivide il percorso seguito dai giudici di merito. Con motivazione corretta ed esaustiva, la Corte territoriale ha accertato l’oggettiva diversità dell’attività di produzione delle due società, secondo le risultanze della espletata c.t.u. La diversa
tipologia di attività tra le due imprese fa sì che nemmeno risulti violato l’obbligo di segretezza previsto dalla scrittura privata sopra citata.
Richiama la Suprema Corte le fi nalità che persegue il patto di non concorrenza, a tutela sia del lavoratore che dell’azienda. L’oggetto del patto è delimitato all’attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, quelle attività estranee allo specifi co settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda.
Ritenuto dunque, nel caso in esame, che l’attività svolta dal dirigente non rientrasse nell’ambito oggettivo del patto di non concorrenza, per la riscontrata diversità dei prodotti, consegue l’insussistenza del rapporto concorrenziale e quindi l’infondatezza del ricorso proposto.