10 ottobre 2014
Se ne sta parlando molto in questo ultimo periodo di mobilità e di trasferte per i pubblici dipendenti nel raggio di 50 Km (al momento della redazione dell’inserto questa è la distanza paventata, poi le modifiche sono all’ordine del giorno).
Nel caso di specie, l’azienda ha spostato alcuni operatori, prevedendo però – come da accordo sindacale – il non riconoscimento della relativa “indennità di trasferta”, ma, dal canto loro, i lavoratori salvavano il ‘posto’, nonostante la crisi dell’impresa.
Scambio, sembrerà strano, ma assolutamente legittimo, non solo per la partecipazione attiva dei sindacati, ma anche, anzi soprattutto, per l’obiettivo prefissato: evitare lo spauracchio dei licenziamenti.
Di conseguenza, è illogica la richiesta, a posteriori, di un dipendente di vedersi riconosciuta l’indennità di trasferta non versata per i diciotto mesi previsti nell’accordo dall’azienda (Cass., sent. n. 14944/2014).
Casus belli, paradossalmente, è l’«accordo», a fine 1999 (e sentenza che decide definitivamente il caso dopo 13 anni!), messo ‘nero su bianco’ per «evitare licenziamenti a fronte di una crisi aziendale»: elemento centrale è la «mobilitazione temporanea di cinque lavoratori» spostati di circa 40 chilometri e collocati in un nuovo stabilimento – senza, però, «rimborso delle indennità di trasferta» per un periodo di diciotto mesi.
Tale azione è stata adottata, dall’impresa, per salvare il posto di lavoro dei dipendenti. E questo elemento è decisivo per i giudici, sia di primo che di secondo grado, i quali respingono la richiesta avanzata da uno dei lavoratori trasferiti, e finalizzata a ottenere, a posteriori, la «corresponsione di quanto dovuto per l’indennità di trasferta, relativamente al periodo gennaio 2000-giugno 2001».
Per i giudici è decisiva la considerazione che «la natura retributiva dell’indennità di trasferta non ne esclude la negoziabilità, specialmente quando la movimentazione dei lavoratori viene prevista», come in questa vicenda, per «evitare il licenziamento e fronteggiare una situazione di crisi aziendale».
Secondo il lavoratore, però, l’ottica adottata dai giudici in Corte d’Appello è erronea. Per una ragione fondamentale: è stato trascurato il fatto che per altri lavoratori, anch’essi trasferiti – seppur, bisogna annotare, con uno spostamento molto più complicato, pari a circa 280 chilometri – e sempre a causa della «crisi aziendale», è stata, invece, riconosciuta l’«indennità di trasferta».
Allo stesso tempo, peraltro, il lavoratore sostiene di non avere affatto condiviso la ‘filosofia’ adottata dai sindacati. Ma queste obiezioni si rivelano assolutamente inutili.
In premessa, i giudici del ‘Palazzaccio’ ricordano che «un contratto collettivo può incidere in senso peggiorativo su diritti del singolo lavoratore non ancora acquisiti», e sottolineano, poi, il valore della «adesione» dei lavoratori, sia «esplicita» che «implicita».
Ebbene, dalla ricostruzione della vicenda emerge che il lavoratore ha «dato pratica applicazione, senza mai lamentarsene, alla clausola prevedente la trasferta senza l’attribuzione dei rimborsi», solo per «alcuni mesi»: tale «comportamento », spiegano i giudici, è da intendere «come accettazione implicita della clausola del contratto, peraltro incidente su diritti patrimoniali non ancora acquisiti da parte del lavoratore».
Peraltro, «la trasferta, temporaneamente senza indennità» appare configurabile, sostengono ancora i giudici, come «una soluzione che non è stata adottata dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma precipuamente per tutelare l’interesse dei lavoratori di evitare la perdita del posto, nell’impossibilità di una prosecuzione dell’attività nella sede di origine».
È lapalissiano, concludono i giudici, che il «sacrificio », sostenuto per pochi mesi, della «mancata riscossione dell’indennità di trasferta» sia stato adeguatamente «ripagato dal mantenimento del posto di lavoro».