4 maggio 2014
In caso di mobbing, l’accertamento del danno alla salute del dipendente non comporta necessariamente anche il riconoscimento del danno alla professionalità.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza 8 gennaio 2014, n. 172. Nello specifi co, un’impiegata del comune di Roma aveva proposto ricorso in Cassazione per ottenere la liquidazione oltre che del danno alla salute (quantificato in 16.000,00), del danno alla professionalità.
In particolare, deduceva che l’acclarato comportamento mobizzante del Comune di Roma, caratterizzato da discriminazione e da persecuzione psicologica, le aveva necessariamente procurato mortificazione morale ed emarginazione professionale, per cui il danno alla professionalità doveva
ritenersi presunto.
Tuttavia, sulla scorta di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, la Suprema Corte ha affermato che, in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno stesso. In sostanza, il danno alla professionalità non può ritenersi in re ipsa, nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno, quale ad esempio un ostacolo alla progressione di carriera (che nella fattispecie la ricorrente non ha nemmeno dedotto).
Ed, invero, “non sussiste alcuna logica contraddittorietà” osserva la Corte “nel riconoscimento del danno biologico e nel rigetto della domanda relativa al danno alla professionalità” in quanto le due voci di danno hanno presupposti completamente diversi, essendo la prima relativa al fi sico del lavoratore, mentre la seconda alla sua professionalità, ovvero all’aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa. Pertanto, conclude la Suprema Corte, non è censurabile la sentenza d’appello che ha riconosciuto un tipo danno e ne ha disconosciuto un altro.