Lavoro a progetto e distinzione dal lavoro subordinato

2 aprile 2014

Il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall’art. 61 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276,prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato fi nale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, nonostante il “nomen juris” adottato dalle parti, aveva escluso la confi gurabilità di un lavoro a progetto e ravvisato la subordinazione del lavoratore, il quale era tenuto a promuovere e vendere quotidianamente un predeterminato numero minimo di prodotti, visitando dati clienti). Identico principio di diritto è affermato da Cassazione 13394/2013.

In senso analogo si confronti anche Cassazione 5698/2002 per la quale perché sia confi gurabile un rapporto di cosiddetta  parasubordinazione ai sensi dell’art.409 n. 3 cod. proc. civ., con conseguente devoluzione della controversia alla competenza per materia del tribunale quale giudice del lavoro, devono sussistere i seguenti tre requisiti: la continuità, che ricorre quando la prestazione non sia occasionale ma perduri nel tempo ed importi un impegno costante del prestatore a favore del committente; la coordinazione, intesa come connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale o, più in generale, nelle finalità perseguite dal committente e caratterizzata dall’ingerenza di quest’ultimo nell’attività del prestatore; la personalità, che si ha in caso di prevalenza del lavoro personale del preposto sull’opera svolta dai collaboratori e sull’utilizzazione di una struttura di natura materiale.
Non è invece necessario che la prestazione consti di un’attività diversa da quella abitualmente esercitata dal prestatore, ne’ che tale prestazione sia resa con totale esclusione di mezzi organizzati o personale subordinato, essendo peraltro irrilevante che il suddetto prestatore agisca in regime di autonomia o di subordinazione.

Valutazione in concreto della gravità oggettiva e soggettiva del fatto addebitato al lavoratore. In materia di licenziamento per ragioni disciplinari, anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verifi care l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore. (Nella specie, il lavoratore, addetto alla vigilanza, in violazione dell’art. 140 del c.c.n.l. per la vigilanza privata, istituti, consorzi e cooperative del 2 maggio 2006 che prevede l’abbandono del posto di lavoro quale giusta causa di licenziamento, si era allontanato dal lavoro mezz’ora prima della fi ne del turno, contestualmente, peraltro, all’arrivo, con mezz’ora di anticipo, del collega del turno successivo; la corte territoriale, pertanto, ha ritenuto – con motivazione ritenuta adeguata dalla S.C. – sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata, non essendo mai rimasto il luogo privo di vigilanza). La valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore – cui si applichi l’art. 221 ccnl per i dipendenti da aziende del terziario: distribuzione e servizi del 2 luglio 2004 -, motivato dalla ricorrenza dell’ipotesi del “diverbio litigioso seguito da vie di fatto, in servizio fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale” – contemplata dall’indicata norma contrattuale, a titolo esemplifi cativo, fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa – deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, anche quando si riscontri la astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c..

Di seguito, buone notizie per i mariti separati e/odivorziati. Assegno di divorzio: vivere con un altro uomo rescinde ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile. Lo ha ricordato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25845/13, depositata lo scorso 18 novembre. Dopo la sentenza defi nitiva di separazione, veniva imposto all’ex marito di contribuire al mantenimento dei 2 figli minori, con il pagamento sia dell’importo mensile di 1.600 euro complessivi annualmente rivalutabili, sia del 50% delle loro spese straordinarie.
Solo in Corte di appello la donna riusciva ad ottenere un assegno divorzile di 200 euro mensili e il pagamento, da parte dell’ex, dei 2/3 delle spese straordinarie dei fi gli anziché il 50%.

Questo perché la donna era disoccupata e a nulla rilevava la convivenza della stessa con altro uomo, da cui aveva avuto un altro figlio.
A proporre ricorso per cassazione è l’ex marito, il quale riesce ad ottenere il rigetto della domanda di assegno divorzile proposta dalla donna in appello. La S.C., infatti, ha ricordato che (Cass.,n. 3923/2012, n. 18195/2011), in tema di diritto di corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, «il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte all’instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non defi nitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile».
Niente da fare quindi per la donna, che non riceverà alcun assegno di divorzio. In caso di separazione dei beni è legittimo portar via i mobili da casa.

Non sussiste reato di appropriazione indebita se il marito, pima della separazione, fa sparire i mobili da casa. È quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 46153 del 18 novembre 2013. L’imputato ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo che lo aveva dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 392 c.p. per essersi fatto arbitrariamente ragione da sé, al fi ne di esercitare un preteso diritto, svuotando la casa coniugale di gran parte dei mobili e suppellettili e sostituendo la serratura, lasciandola inabitabile per moglie e figlia. Il ricorrente, in particolare, deduce vizio di motivazione della sentenza, in quanto, pur  essendoci stata sottrazione dei beni, non si è verificato alcun tipo di violenza sugli stessi. Conseguentemente, non è confi gurabile furto ex art. 624 c.p., essendoci i presupposti per la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 649 c.p.. L’asportazione dei mobili dall’abitazione non ne ha danneggiato o trasformato la destinazione economica in quanto ha conservato intatte tutte le proprie connotazioni funzionali. Inoltre, poiché a lasciare l’appartamento è stata la moglie, il ricorrente, che ha continuato ad abitarvi, ha il possesso degli arredi.
Non sussiste nemmeno appropriazione indebita senza separazione legale. Al più, si può contestare il reato di appropriazione indebita che sussiste quando l’agente ponga in essere atti di qualsiasi genere che eccedano le facoltà inerenti il possesso.

Ed è proprio ciò che si è verifi cato nel caso di specie, avendo il coniuge trasportato il mobilio in una località ignota alla moglie. Tuttavia, poiché «il fatto è stato commesso in danno della moglie non legalmente separata» è applicabile la causa di non punibilità di cui all’art. 649, co. 1, n. 1 c.p., secondo il quale non è punibile che ha commesso reato a danno del coniuge non legalmente separato.