10 marzo 2014
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25203 del 8 novembre 2013. La Corte di Appello di Genova, confermando la pronuncia di primo grado, rigettava le domande con cui una lavoratrice lamentava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatole per avere, nella ricostruzione aziendale, allegato a numerose richieste di rimborso biglietti ferroviari non corrispondenti alle trasferte autorizzate. Ad avviso della Corte la società aveva dato piena prova dell’inadempimento della ricorrente mentre, al contrario, era rimasta indimostrata la tesi difensiva di quest’ultima
che i biglietti contestati fossero stati inseriti nelle proprie richieste di rimborso per errore dell’ufficio competente o, alternativamente, ad opera di terzi intenzionati a cagionarle un danno. Il comportamento addebitato alla lavoratrice risultava dunque proporzionato alla sanzione adottata, indipendentemente dall’assenza di precedenti disciplinari nella ultraventennale durata del rapporto.
Contro tale pronuncia la lavoratrice ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi.
La giusta causa è una norma elastica. La ricorrentelamentava come la documentazione posta a supporto dei rimborsi spese, dopo la consegna all’ufficio competente, fosse nella esclusiva responsabilità della società la quale, prima di autorizzare il rimborso, effettuava ben tre livelli di controllo.
Era dunque onere del datore di lavoro verificare la correttezza della documentazione allegata e, se del caso, negarle il rimborso. Sotto altro profilo, la ricorrente lamentava l’errore della pronuncia impugnata nella parte in cui aveva di fatto considerato incontestabile l’allegazione alle numerose richieste di rimborso di documentazione inconferente o fittizia. Motivi che, ad avviso della Cassazione, risultano fondati.
Preliminarmente, la Corte rileva come la giusta causa di recesso sia una «norma elastica (che, per sua natura, si limita ad indicare un parametro generale) », rispetto alla quale il Giudice ha il compito di darvi concretezza dando conto del procedimento logico su cui fonda la propria decisione, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
L’onere di provare la giusta causa grava sul datore di lavoro. Su tale premessa, la Corte rileva come l’onere di provare la giusta causa di licenziamento gravi integralmente sul datore di lavoro e riguardi «tutti gli elementi costitutivi della fattispecie posta a base del recesso». Onere che nemmeno può essere assolto attraverso presunzioni, atteso che il ricorso a tale istituto, inteso come conseguenza che si trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, è ammesso solo a condizione che il fatto noto sia accertato ed univoco.
La giusta causa di recesso richiede quindi l’accertamento, da parte del Giudice di merito, dell’entità dell’inadempimento e della colpa nonché della loro incidenza sul vincolo fi duciario. Per tali ragioni, la Cassazione ritiene che la Corte di merito sia incorsa in errore affermando che era onere della lavoratrice dimostrare che la documentazione allegata alle richieste di rimborso non corrispondesse a quella originale, «così attribuendo alla lavoratrice un onere che non solo non le spettava, ma era praticamente impossibile da assolvere visto che tutti gli elementi per fornire tale prova erano in possesso della datrice di lavoro».
La Corte accoglie quindi il ricorso ritenendo, in estrema sintesi, che la società non avesse fornito alcuna prova dell’infondatezza delle eccezioni della lavoratrice con ciò gravandola di un onere.